martedì 9 luglio 2013

VOYAGER, ULTIMA FRONTIERA?



FONTE: corriere della sera il club della lettura   del 9.07.2013


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«Potrebbe accadere da un momento all’altro, ma potrebbero volerci ancora molti anni»: così Edward C. Stone, professore di Fisica al California Institute of Technology di Pasadena e direttore per un decennio (1991-2001) del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. Sotto la sua guida, l’ente spaziale americano ha programmato e lanciato alcune delle sue missioni di maggiore successo, dal Mars Pathfinder (1997) a Deep Space 1 e 2 (1998 e 1999).
Stone si riferisce a un evento che non è esagerato definire storico: la sonda spaziale Voyager 1 sta infatti per attraversare i confini del sistema solare, diretta verso lo spazio più profondo (e sconosciuto) — «là dove nessun uomo è mai giunto prima», come recitava la sigla della celebre serie televisiva Star Trek. E non è certo un caso che il primo film ispirato alle avventure dell’equipaggio dell’Enterprise (1979) immaginasse che nel XXI secolo una misteriosa nube aliena, dal nome V’Ger, si avvicinasse minacciosamente alla Terra. Il capitano James Kirk e i suoi compagni avrebbero presto scoperto che V’Ger non era altro che la sonda Voyager, perduta molti anni prima e intercettata da una razza aliena di macchine viventi.
Nel 1964 la Nasa propose il «Grand Tour dei pianeti», un ambizioso progetto per inviare alcune sonde nelle regioni più remote del sistema solare. L’ideatore, Gary Flandro, intuì la possibilità di sfruttare un raro allineamento dei pianeti superiori, che non si sarebbe ripetuto per altri 175 anni. Una sonda inviata verso Giove avrebbe potuto utilizzare il pianeta come «fionda gravitazionale» per dirigersi verso i pianeti più esterni: con una quantità minima di propellente avrebbe così impiegato un tempo considerevolmente ridotto per coprire la distanza tra un pianeta e il successivo.
Lanciate da Cape Canaveral rispettivamente il 20 agosto e il 5 settembre 1977, Voyager 2 e Voyager 1 avevano l’obiettivo iniziale di studiare Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Completato il compito nel 1989, dopo aver raccolto una quantità enorme di informazioni sui giganti gassosi del sistema solare e sui loro satelliti, vennero dirette verso lo spazio aperto, al centro della nostra galassia. Oltre agli strumenti per la raccolta dei dati, ognuna di esse porta con sé un disco di rame placcato d’oro (il cosiddetto «Voyager Golden Record»), i cui contenuti furono selezionati da un comitato presieduto da Carl Sagan (1934-1996), noto divulgatore scientifico e autore di romanzi di fantascienza: oltre a fotografie della Terra, il disco contiene una raccolta di suoni del nostro pianeta, dal canto delle balene ai vagiti di un neonato, dal rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia ad alcune composizioni di Mozart (oltre a Johnny B. Goode di Chuck Berry). Voyager 2 segue però una traiettoria più lenta ed è rimasta indietro rispetto all’altra sonda.
In 35 anni di attività Voyager 1 ha coperto una distanza di oltre 18 miliardi di chilometri (pari a circa 125 volte la distanza media Terra-Sole). I dati che invia impiegano ormai 17 ore per raggiungere i centri di rielaborazione dell’agenzia spaziale americana, ma ogni piccolo bit di informazione è atteso con impazienza e curiosità: mai un oggetto costruito dall’uomo, infatti, è giunto così lontano, fornendo immagini e descrizioni dettagliate dell’eliosfera, l’enorme «bolla» di particelle cariche emesse dal Sole.
Nel 2004 la sonda raggiunse l’eliosheath (o «elioguaina»), una regione in cui il vento solare è particolarmente intenso, compresso e turbolento, a causa della sua interazione con lo spazio interstellare. Si pensava fosse questo il confine estremo del sistema solare; ma non è così. Lo scorso anno Voyager 1 rilevò quello che è apparso essere un confine discreto, che Stone chiama «regione di esaurimento»: una sorta di strato magnetico attraversato da particelle energetiche in viaggio verso lo spazio esterno o da raggi cosmici in arrivo nel nostro sistema solare. Ma neppure questo era il «confine».
La quantità di raggi cosmici evidenziati dai due telescopi ad alta energia della sonda è andata progressivamente diminuendo con gli anni, ma negli ultimi mesi la riduzione è stata particolarmente significativa, e questo è considerato dagli scienziati un primo importante indicatore del fatto che la sonda abbia ormai varcato il confine dello spazio interstellare. Un secondo indicatore è dato poi dalla variazione di intensità delle particelle energetiche incontrate: anche in questo caso, il numero delle rilevazioni è in continua diminuzione, ma non si è avuto un salto netto nei valori, come avverrebbe se Voyager 1 avesse definitivamente abbandonato l’«area di influenza» della nostra stella. Un terzo, cruciale indicatore è dato dal cambiamento nella direzione delle linee del campo magnetico: ci si aspetta che queste subiscano un deciso riorientamento nel momento in cui la sonda entrerà nello spazio profondo. La mancata registrazione di tale riorientamento porta alla prudenza, anche se nessuno sa, con precisione, che cosa avverrà al momento del passaggio. «Siamo in una regione del tutto sconosciuta — osserva Stone —, quindi tutto ciò che osserviamo emisuriamo è diverso ed eccitante».
Lasciato il sistema solare, Voyager 1 si dirigerà verso una stella nota come AC+793888. Alla velocità attuale, di circa 17 chilometri al secondo, la «raggiungerà» — mantenendosi a una distanza di circa due anni-luce (approssimativamente 9.500 miliardi di chilometri) — fra 40 mila anni. Molto prima di allora, fra 10-15 anni, le pile al plutonio che alimentano la sonda si esauriranno: gli strumenti e i trasmettitori taceranno per sempre, e Voyager 1 diventerà un’ambasciatrice silenziosa della nostra civiltà attraverso la Via Lattea. Prima o poi, forse, come immaginarono gli autori di Star Trek, «qualcuno» la intercetterà.
Stefano Gattei

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